Durante il NipPop 2016 non si è parlato soltanto di Evangelion: siamo rimasti molto colpiti dalla conferenza “Kido Senshi Gundam – L’inestimabile eredità di Yoshiyuki Tomino”, a cura di Anime & Manga [ITA].
Siccome uno degli scopi di Distopia è quello di analizzare Neon Genesis Evangelion non solo come opera a sé, ma anche inserita nel più ampio contesto dell’animazione nipponica, abbiamo proposto ai due relatori, FAR e Italo, di rielaborare i propri interventi sotto forma di articoli da pubblicare su questo sito.
Quello che segue è l’articolo di Italo, mentre quello di FAR è disponibile a questo link.
Filippo “Nevicata”
La prima volta in cui digitai nella barra di ricerca di Google la parola “Tomino” avevo appena 13 o 14 anni, e non ero a conoscenza dell’esistenza di un formaggio piemontese chiamato in quel modo. Il mio primo incontro con quel “maledetto” pelato di Yoshiyuki Tomino, causa scatenante di tanti traumi della mia adolescenza, fu quello – e devo ammettere che mi aiutò molto a capire che la ricerca di Google non è poi così precisa come pensavo.
La carriera di Yoshiyuki Tomino
La sua storia comincia con la nascita dell’animazione seriale nipponica nel 1963: appena laureatosi al dipartimento di Arte della Nihon University entra a far parte della neonata Mushi Production di Osamu Tezuka. All’epoca l’industria dell’animazione era ancora allo stato embrionale, e il buon Tezuka assumeva chiunque dimostrasse di voler effettivamente lavorare in quel campo, anche senza alcuna reale preparazione; la formazione artistica di Tomino gli consentì quindi di acquisire rapidamente importanza all’interno dello studio. Prima come storyboard artist e poi da episode director il futuro “macellaio” consolidò un ruolo di massima importanza che lo vedeva lavorare a fianco dell’élite di quel tempo: in particolare il sodalizio con Osamu Dezaki in Ashita no Joe (lett. “Joe del domani”, in Italia conosciuto come Rocky Joe) fu a mio avviso fondamentale per la sua crescita.
La regia di Dezaki era particolarmente votata alla ricerca di un certo senso drammatico lontano dai canoni del tempo, con una particolare enfasi a determinate scene statiche definite dai posteri “postcard memories”; utilizzando uno still frame particolarmente rifinito in termini di dettagli, riconducibile a un vero e proprio quadro, Dezaki poteva ammortizzare i costi e concentrare in una sola inquadratura una forte componente emozionale. Malgrado non sia mai stata dichiarata, l’influenza sul lavoro successivo di Tomino è abbastanza palese anche e soprattutto in termini di ricerca stilistica.
Dopo il suo primo lavoro da regista di una serie, ovvero l’adattamento del manga di Tezuka Umi no Triton (Toriton) del 1971, la Mushi fallisce e Tomino si trova a lavorare come freelance a serie di successo –Uchuu senkan Yamato (La corazzata Yamato), Heidi, Anna dai capelli rossi– e non, accumulando una certa esperienza per poter fare il “salto di qualità” e dimostrare le sue effettive qualità.
Dopo la regia dell’imbarazzante Il Tulipano Nero arriva quindi il turno, nel 1975, di Yuusha Raideen (Il prode Raideen), la sua prima serie mecha da regista. La serie, realizzata assieme agli amici ed ex colleghi alla Mushi Tadao Nagahama e Yoshikazu Yasuhiko (con cui avvia uno dei più importanti sodalizi della storia dell’animazione), non è chissà cosa. Malgrado i personaggi risultino più sfaccettati anche grazie alla particolare efficacia del chara design di Yoshikazu Yasuhiko, noto anche come Yas, nel rendere visibili le emozioni e venga introdotto il primo mecha di origini mistiche, si tratta di un comunissimo show di genere super robot inserito nel filone delle serie Toei, con formula “Monster of the week” e conflitto manieristico tra bene e male.
Raideen permette però di allacciare dei solidi rapporti di lavoro tra Tomino e la Sunrise, lanciando quindi le basi per ciò che avverrà quattro anni dopo.
L’anno della svolta in cui inizia a preparare il terreno per la sua opera più importante è dunque il 1977: dopo la produzione dell’interessante serie Vultus 5, diretta da Nagahama, Tomino approda alla direzione della sua seconda serie robotica presso Sunrise, ovvero Zambot 3.
Qui il discorso si amplia notevolmente: il primo aspetto interessante riguarda i protagonisti. A bordo dei “robottoni” nipponici erano sempre saliti uomini coraggiosi e di grande valore, o al massimo spavaldi ma abili ribelli come Koji Kabuto, mai dei veri e propri bambini come Kappei Jin, il dodicenne primo pilota dello Zambot. Al netto di questa scelta, Tomino modifica anche il contesto, rendendo l’atmosfera infantile e banale tipica del genere decisamente tragica e matura. La guerra che i piloti dello Zambot sono costretti a combattere contro le armate Gaizok è incredibilmente vicina alla realtà e mostra uno scontro violento in cui molti, per la prima volta in una serie simile, sono destinati a perdere la vita. L’argomento è trattato da Tomino con immensa serietà, distaccandosi notevolmente da quelle che erano le tendenze dell’epoca; nella storia di Tomino non c’è spazio per la nobiltà d’animo, il coraggio e tutti i valori sbandierati nel genere mecha come primari.
I piloti dello Zambot si ritrovano a dover crescere in mezzo a un conflitto sanguinario, tra la diffidenza dei terrestri che li vedono come una minaccia a causa della loro natura aliena e la brama di distruzione dei nemici.
Inaugurando qui una lunga serie di finali estremamente drammatici, “Tomino il macellaio” -da qui il suo soprannome storico- inizia una ricerca all’interno del genere mecha che prosegue l’anno dopo con una serie ancora più efficace, per certi versi, rispetto a Zambot, ovvero Daitarn 3.
Passando da un estremo all’altro, Tomino orchestra una perfetta parodia dello spy movie facendo perno su un personaggio iconico e indimenticabile come Haran Banjo; la sua sfacciataggine e il suo carisma da 007 lo rendono un personaggio tuttora unico all’interno del panorama dell’animazione robotica e non solo, oltre che un particolare motore comico per la serie.
L’elemento più caratterizzante dell’intera produzione è però il mecha design di Kunio Okawara, capace di donare al Daitarn una forza incredibile nelle apparizioni a schermo. Ancora oggi i movimenti netti delle possenti braccia e l’efficacissima mimica facciale del mecha pilotato da Haran Banjo rappresentano in maniera evidente un importante passo verso una maggiore caratterizzazione dei robot, che in breve tempo da dei corazzati e indistruttibili diventeranno meri oggetti dell’uomo.
Kido Senshi Gundam (Mobile Suit Gundam) è quindi il frutto di un lavoro costante di ricerca e di innovazione nato dalla necessità di un uomo, da sempre inserito nei meccanismi dell’industria, di liberarsi dagli stilemi per far risaltare nel mondo dell’animazione quella che era la sua visione delle cose; è un’opera indimenticabile e fondamentale nel mondo dell’animazione nipponica. Si può dire che abbia in un certo senso stabilito un canone per via delle novità che mostrava in diversi campi: il chara design di Yas, ad esempio, consentiva ai personaggi una potenza drammatica non indifferente, così come il mecha design di Okawara risultava agli occhi di uno spettatore medio profondamente realistico per quanto un mecha alto 18 metri non lo sia.
Gundam forniva un’esperienza differente, rappresentava -e rappresenta tutt’oggi- una sorta di linea di demarcazione tra quello che poi sarà definito “anime moderno” e i primi esempi di animazione seriale.
L’opera di Tomino è facilmente considerabile il punto di partenza di un movimento concreto e di un clamore attorno all’animazione mai visto prima.
È emblematico pensare a come Shoji Kawamori o Hideaki Anno, appartenenti alla seconda generazione di addetti ai lavori, siano stati ispirati dal lavoro di Tomino prendendone a piene mani per la realizzazione di alcune delle proprie opere più importanti.
L’eredità di Yoshiyuki Tomino
Pensando a come effettivamente il successo di Gundam sia dovuto alle repliche e non alla messa in onda originaria, che fu anzi fallimentare e costellata da bassi ascolti che provocarono della riduzione del numero delle puntate, è quindi davvero interessante constatare come invece la sua influenza sulle serie robotiche fu immediata: il primo titolo a cui mi viene di pensare è Muteki Robot Trider G7, prodotto da Sunrise in 50 puntate subito dopo la fine di Gundam.
Fregiandosi del mecha design di Okawara la serie rappresentava l’opposto di ciò che era stato Gundam, ovvero una folle parodia in cui tutti gli stilemi del mecha nagaiano vengono ribaltati completamente e messi in ridicolo.
Tomino ha di fatto mostrato la necessità di rinnovamento di un genere che iniziava a risultare stantio perché legato a una formula narrativa efficace ma stancante, che manteneva i suoi personaggi in una sorta di limbo nel quale non c’è spazio per la crescita, e ha dunque aperto la strada a chi era sì legato a quei prodotti ma anche mosso dalla voglia di migliorarli, ovvero quelli della cosiddetta seconda generazione.
Nel 1982 esce Chojiku yosai Macross (Fortezza superdimensionale Macross), serie realizzata da Studio Nue e ideata da Shouji Kawamori – all’epoca molto giovane – che, influenzato dal realismo di Gundam, decise di creare una serie che fondesse quel tipo di oculatezza nei particolari alla space opera di Leiji Matsumoto.
Così la storia di Macross si basa sull’incontro tra due specie diverse, tra due culture diverse: Kawamori prende proprio il concetto di cultura e lo rende elemento fondante della storia.
Praticamente in ogni storia di fantascienza precedente l’alieno veniva percepito come una costante minaccia, un pericolo, e la razza aliena qualcuno di cui dubitare; è uno stereotipo che Tim Burton ha saputo utilizzare benissimo in Mars Attack, film esilarante in cui sono presenti i classici alieni verdi con il cervellone che sterminano la razza umana e si prendono gioco di essa.
Qui invece la situazione è radicalmente diversa: quella Zentradi, la razza aliena presente in Macross, è sì una specie aliena attratta dalla guerra, ma razionale e sensibile quanto quella umana. L’intuizione geniale di Kawamori fu quella di inserire nella storia un personaggio divenuto emblema del brand, di cui ci viene ricordata l’esistenza a ogni nuova incarnazione, ovvero Lynn Minmai, il primo esempio di idol dell’animazione giapponese.
L’intenzione di Kawamori era quella di mostrare, attraverso la musica, come due culture completamente diverse possano incontrarsi e capire l’inutilità della guerra attraverso l’emozionalità di un momento tanto intenso quanto può esserlo un concerto per la pace.
All’epoca l’esperimento a livello qualitativo riuscì benissimo -fallendo invece nell’attrarre completamente il pubblico- grazie anche a un triangolo amoroso che rendeva ancor più completa e interessante la trama di base e al chara design di Haruhiko Mikimoto, che con questa serie è entrato di prepotenza nel mio olimpo personale di chara designer.
Un altro regista, all’epoca giovane anch’egli, influenzato da Tomino in quanto lavorava nel medesimo studio, è Ryousuke Takahashi.
L’influenza del realismo gundamiano si sente fortissima sia nel mondo di Armored Trooper Votoms che in Blue Comet SPT Layzner, dalla storia più classica e forse “infantile”: Takahashi, come Tomino, non si pone mezze misure nel dipingere la durezza di un conflitto, e pur prediligendo come protagonisti dei personaggi drammatici, tetri, quasi irreali a un primo impatto, riesce a non far venire mai meno la sensazione di star vedendo qualcosa di profondamente vicino a quel che si vive in tempo di guerra, o dopo.
Prima di passare a quel che Gundam è oggi, chiudiamo questa parte con un nome: Hideaki Anno.
Certamente Tomino fu per Anno -e lo è probabilmente ancora adesso visto che entrambi sono due str…, pardon, due “crudeli cattivoni” oggi più che mai- un vero e proprio modello di ispirazione: per farvi capire fino a che livello arrivava la sua ossessione per le sue opere, Moyoco Anno, sua moglie, racconta in un manga autobiografico, Insufficent Direction, che trascorsero la prima notte di nozze a vedere Densetsu kyojin Ideon (Space Runaway Ideon).
E sicuramente senza Gundam e, appunto, Ideon, Anno non sarebbe arrivato a rivoluzionare il mondo del mecha con Gunbuster e a scuotere quello dell’animazione intera con Evangelion, come probabilmente non avrebbe mai inserito una tale profondità di caratterizzazione dei personaggi in Nadia. Quel caro pelatone rappresenta per Anno un’influenza pari forse solo a quella di Hayao Miyazaki, altro suo grande amore in termini di animazione, ed è anche curioso vedere come effettivamente Evangelion e Gundam abbiano avuto destini praticamente identici: prima il flop in televisione, poi il successo con repliche e versioni cinematografiche, diventando nel giro di un anno due degli anime più importanti di sempre.
Per quanto per ragioni affettive io preferisca Gundam, bisogna ammettere che Anno però fece un passo avanti, non più creando una storia da narrare con realismo, ma narrando direttamente quello che è la realtà.
Evangelion non è altro che il racconto perfetto della vita: una lotta impari tra un uomo che soffrirà sempre e il resto del mondo che lo guarda ridendo, ma anche il racconto di come non bisogna smettere di prendere pugni.
Ovviamente questo non è tutto Evangelion, è solo uno dei lati che amo di più di quest’opera, ma non essendo questo un articolo su Eva spero chiudiate un occhio.
Il franchise di Gundam
Velocemente, cosa è successo a Gundam in 37 anni? Quello che succede a qualsiasi prodotto quando ha abbastanza forza commerciale da diventare appetibile a livello di merchandising: è diventato un brand.
E questo con tutti i pro e i contro del caso: di serie negli anni ne sono uscite tante, e sinceramente sono molte di meno quelle che per concetto e realizzazione si possono definire “Gundam”; abbiamo avuto serie per fujoshi, serie per bambini, serie per maniaci dei gunpla, serie per chi aveva l’assurda idea di voler vedere dei Gundam menarsi in stile Mazinga, serie per Tomino che ormai ha un Alzhaimer talmente tanto avanzato che neanche lui ricorda più quello che scrive, e così via.
La Bandai e la Sunrise hanno spremuto per bene la serie, incontrando anche l’astio di Tomino che negli anni, anche a causa di un periodo di depressione, non ha mai visto di buon occhio né le pressioni del colosso produttore di giocattoli né il fatto che venissero mandate in onda serie che con lui non avevano niente a che fare e che tradivano anche spesso lo spirito di Kidou Senshi Gundam.
Recentemente, addirittura, la Sunrise sembra quasi volerlo sottoporre a una sorta di damnatio memoriae: in Origin ad esempio sembra quasi che il creatore di Gundam sia Yas, per dire; e certamente il buon Yoshikazu ha avuto una buona parte di merito nel rendere la serie un caposaldo dell’animazione giapponese, come ce l’ha avuta Okawara col suo mecha design, ma tutti noi sappiamo a chi dover rendere grazie.
Al maestro Tomino, che anche dopo Garzey’s Wing e G no Reconquista rimarrà per sempre nei nostri cuori.